Il cacao. Così prezioso che gli aztechi ne usavano i semi come moneta. Così straordinario che Carl von Linné, il botanico svedese che per primo studiò la pianta da cui nasceva, decise di chiamarla Theobroma cacao, in greco cibo degli dei. Così buono che basta un morso per creare con lui un legame perpetuo. Non di dipendenza, ma di amore.
La storia del cacao
Furono i popoli del centro America a scoprire 1500 anni prima della nascita di Cristo gli alberi del cacao, anche se all’inizio i suoi frutti venivano raccolti solo per consumarne la polpa cruda.
Dovremo aspettare la civiltà Maya per trovare i primi indizi del consumo del cacao vero e proprio. Le cronache riportano infatti che durante le cerimonie religiose nobili e sacerdoti bevevano lo jom cacao, preparato mescolando i semi polverizzati con acqua e spezie e aggiungendo dell’amido di mais per addensarlo.
All’inizio il valore del cacao è prevalentemente mistico. Fra le tante leggende che raccontano l’origine della pianta una delle più struggenti parla di una principessa che si lasciò uccidere piuttosto che tradire il marito. Dal suo sangue nacque un albero il cui frutto racchiudeva semi amari come le sofferenze dell’amore, forti come la virtù, arrossati come il sangue.
Ma con il tempo vengono riconosciute anche le sue qualità energetiche. I semi vengono tostati per esaltarne il sapore e mescolati al peperoncino ottenendo il xocolati, non più riservato solo alle élite ma parte dell’alimentazione quotidiana dei guerrieri e di quei fortunati, fra le classi inferiori, che devono affrontare lavori pesanti. Le coltivazioni diventano sistematiche e i sacchi di sementi vengono conservati nei depositi reali e usati come moneta per gli scambi, non solo di tipo commerciale visto che il prezzo di una notte d’amore era fissato in dodici semi.
Eppure dopo lo sbarco di Cristoforo Colombo a San Salvador nel 1492 l’approccio dei conquistadores a questa primitiva cioccolata è tutt’altro che favorevole. Hernan Cortés reagisce con disgusto quando Montezuma, l’imperatore degli aztechi, gli offre in segno di benvenuto una coppa d’oro piena di xocolati. E chi torna nel vecchio continente descrive questo popolo come una massa di selvaggi idolatri che praticano sacrifici umani e bevono un liquido degno dei porci. Infatti quella che si presenta agli spagnoli è una bevanda amarognola e così grassa da formare in superficie uno strato indigesto di burro, un insieme indigesto per gli evidentemente troppo sensibili palati europei.
Ma le Americhe offrono un’infinità di nuove risorse alimentari, come un’orchidea che cresce in Messico e dai cui baccelli si produce un’aroma destinato a conquistare il mondo: la vaniglia. Saranno le suore di un convento messicano ad eliminare dalla versione originale gli ingredienti piccanti sostituendoli con questa spezia e dello zucchero di canna.
Così addolcita la ricetta viene portata in Spagna dai missionari assieme alle materie prime per realizzarla. Non viene ancora distribuita sul mercato ma è preparata a scopo medicinale nelle spezierie dei monasteri. Il passaggio da farmaco a bevanda di moda fra le famiglie aristocratiche è però breve. Bere la cioccolata diventa una piacevole abitudine da trascorrere nelle cioccolaterie, i nuovi locali specializzati nella sua preparazione che nascono in tutta la penisola iberica.
Anche se la Spagna riesce a mantenerne il monopolio per quasi tutto il XVI secolo col tempo il cacao si diffonde nel resto d’Europa grazie al contrabbando, ai matrimoni combinati fra la nobiltà spagnola e quella degli altri paesi e anche attraverso le guerre e i relativi spostamenti degli eserciti che in quel periodo sconvolgono il continente. In Francia si inizia a servire il cioccolatte, una versione ulteriormente perfezionata della cioccolata ottenuta miscelandola non più con l’acqua ma col latte, e nei manuali di pasticceria compaiono le prime ricette di dolci al cacao. Il più importante di questi è The Manner of Making Coffee, Tea and Chocolate, pubblicato nel 1685 a Londra dal pasticcere francese Philippe Dufour, che riporta le istruzioni per consumare il cioccolato in forma solida. All’inizio del XVIII secolo il cacao entra a pieno titolo nel mondo dei dessert grazie a dolci come il tartufo, le nocciole ricoperte e la mousse.
Ma è nel 1828 che arriva un’invenzione tanto semplice quanto rivoluzionaria per la pasticceria, quando il chimico olandese Coenraad Van Houten inventa una pressa idraulica in grado di separare la parte grassa dei semi, il burro di cacao, da quella secca. Aggiungendo a quest’ultima dei sali ottenne una polvere dal forte aroma, magra e di facile lavorazione. Era nato il cacao che oggi tutti conosciamo.
La pianta del cacao
Originario dell’America centro-meridionale l’albero del cacao si è diffuso successivamente in Estremo Oriente e in Africa, che oggi rappresenta il suo primo produttore mondiale.
L’albero può raggiungere un’altezza massima di 7 metri e ha una vita produttiva che non supera i 25 anni. Per crescere e dare frutti ha bisogno di precise condizioni ambientali e climatiche: suolo ricco, clima caldo e umido e un “ombrello” di alberi di maggiore statura che lo protegga dal calore diretto del Sole e dal vento. Condizioni severe che infatti ne limitano la coltivazione a un limitato numero di paesi vicino all’Equatore.
I frutti, chiamati cabosses, si presentano come dei grossi cetrioli che al momento della maturazione assumono un colore giallo-arancio. La polpa, di colore bianco, aspetto gelatinoso e dal sapore dolce, può essere impiegata come base per bevande dissetanti o, fermentata, come liquore. Ma quelli che contano veramente sono i semi.
Come si produce il cacao
Ogni frutto contiene circa 40 semi, chiamati anche fave, lunghi circa 3 centimetri. Una volta estratti dalla polpa vengono puliti e fatti fermentare per una settimana in modo che il loro aroma inizi a svilupparsi. Segue un periodo di cinque giorni durante i quali sono lasciati essicare al Sole. In questa fase i semi oltre a perdere l’acqua si addolciscono. A questo punto sono pronti per essere spediti nei paesi industriali per la trasformazione in cacao.
Allo stato naturale i semi sono commestibili ed offrono un alto valore nutritivo. Ma, analogamente a quanto avviene per il caffè, è con la torrefazione che sviluppano pienamente il loro gusto caratteristico. Questo processo consiste nel riscaldarli all’interno di forni rotanti a una temperatura di circa 100 gradi per un tempo di una o due ore. In questo modo si procede anche all’eliminazione del guscio e di eventuali microrganismi e parassiti.
I semi vengono quindi macinati a una temperatura di 50 gradi che fa sciogliere la parte grassa ottenendo la pasta di cacao, chiamata anche liquore di cacao. Questa può essere già usata per la realizzazione di prodotti finiti o trattata ulteriormente per estrarre il burro di cacao e la polvere di cacao. E’ combinando questi tre ingredienti che vengono prodotti i diversi tipi di cioccolato.
Come si produce il cioccolato
La produzione del cioccolato vero e proprio ha inizio con il concaggio. Gli ingredienti vengono mescolati delicatamente nelle concatrici, macchinari simili a culle, mantenendoli a una temperatura di 80-85 gradi. E’ in questo modo che il cacao perde l’acidità residua e acquista il suo gusto definitivo.
La seconda e ultima fase è quella del temperaggio. La temperatura della massa di cacao viene portata rapidamente da 50 a 29 gradi trasformandola dallo stato liquido in blocchi solidi, il cui aspetto si presenta lucente grazie alla cristallizzazione dei grassi.
Come scegliere il cioccolato
La scelta di un cioccolato non dovrebbe dipendere dai consigli delle pubblicità ma dalle indicazioni che possiamo trovare sull’etichetta.
La prima di queste è la denominazione di vendita. Ad esempio l’espressione “tavoletta di puro cioccolato superiore al latte” indica per prima cosa il tipo di prodotto (tavoletta oppure pralina, uovo ecc.). Segue il termine puro, purtroppo solo facoltativo, che avvisa se nella preparazione sono stati usati grassi diversi dal burro di cacao. Infine possono essere usati termini come superiore, fine o finissimo per sottolineare quando la quantità di un ingrediente è superiore al minimo stabilito per legge.
Sotto questa espressione si trova fra parentesi la percentuale di cacao usato. E’ importante sapere che quando si usa il solo termine di cacao ci si riferisce a quello in polvere, chiamato anche sostanza secca per distinguerlo dalla componente grassa presentata sempre come burro di cacao.
Gli ingredienti sono sempre elencati in ordine di peso decrescente.
Seguono il nome e la sede del produttore, le modalità di conservazione, la data di scadenza, le informazioni nutrizionali e il peso netto del prodotto, che deve essere obbligatoriamente indicato per quantità superiori ai 30 grammi.
Per legge il cioccolato deve contenere almeno il 35% di sostanza secca di cacao e il 18% di burro. Rispettate queste condizioni si possono avere migliaia di varianti. Gusto e qualità dipendono infatti dal paese di provenienza del cacao, dai procedimenti di lavorazione, dalle variazioni percentuali di liquore, burro o polvere e dell’aggiunta di aromi o di altri ingredienti. Ma anche se oggi supermercati e negozi vendono tavolette in grado di soddisfare ogni genere di percezione sensoriale le categorie principali restano le seguenti:
- cioccolato fondente: contenente almeno il 45% di pasta di cacao e il 28% di burro. E’ presente anche dello zucchero, ma in quantità ridotte;
- cioccolato extra fondente: in questo caso la percentuale di cacao può superare il 70%;
- cioccolato al latte: è prodotto aggiungendo zucchero e latte in polvere al burro e alla massa di cacao;
- cioccolato amaro: chiamato anche cioccolato nero non contiene zucchero e aromi e deve avere almeno il 70% di cacao;
- cioccolato bianco: non contiene polvere ma solo burro di cacao con l’aggiunta di latte e zucchero;
- cioccolato gianduia: è una specialità torinese prodotta mescolando la polvere di cacao con le nocciole tipiche della Langhe;
- cioccolato di copertura: ha un’alta percentuale di burro di cacao ed è impiegato nella pasticceria professionale per realizzare glasse e praline.
Le regole per riconoscere un buon cioccolato
Ecco le sette regole per distinguere un cioccolato di qualità:
- aspetto: una superficie uniforme e lucida indica la presenza di una buona quantità di burro di cacao;
- colore: al contrario di quello che si pensa il nero non è un indizio di buona qualità ma al contrario di una tostatura eccessiva. Le tonalità giuste sono invece quelle marroni;
- consistenza: la qualità è buona se la tavoletta si spezza in maniera netta e mediocre se si sbriciola. Non fidatevi delle tavolette che si piegano come una gomma da masticare;
- profumo: deve essere quello del cacao, inebriante e deciso, senza note acide, di bruciato o rancide;
- sapore: per gustarlo pienamente dovete lasciarlo sciogliere in bocca in modo da coglierne pienamente gli aromi. Più lunga sarà la loro durata più alta sarà la qualità del cioccolato;
- suono: anche l’udito contribuisce alla valutazione. Se la barretta si spezza con uno schiocco deciso allora il giudizio è positivo;
- temperatura: il cioccolato di qualità al primo contatto è freddo e deve sciogliersi col calore delle dita senza diventare appiccicoso.
Come conservare il cioccolato
Il modo migliore di preservarne il gusto e l’aspetto è di tenerlo in un luogo asciutto, al riparo dalla luce e ad una temperatura fra i 12 e i 18 gradi. Quindi potete tenerlo fuori dal frigorifero se la temperatura ambientale è compresa fra questi due estremi.
Una volta tolto dalla confezione avvolgetelo nella carta stagnola che sigillerete a sua volta con della pellicola trasparente.
Un cioccolato conservato male presenta una patina biancastra, la cosiddetta fioritura, dovuta ad esposizione all’umidità, che fa affiorare lo zucchero, o ad eccessivi sbalzi di temperatura, che portano alla cristallizzazione del burro di cacao. Comunque le conseguenze sono puramente estetiche e lasciano il sapore inalterato.
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