I dolci e la letteratura. Quando l’arte della pasticceria incontra l’arte di scrivere

03/012020
Jean Beraud_La patisserie Gloppe_1889

Che emozioni possono aver provato i poeti che ebbero il privilegio di assaggiare la crema chantilly appena inventata da François Vatel, il celebre cuoco e pasticciere che contribuì allo splendore del regno del Re Sole?

E quali esclamazioni di entusiamo avranno suggerito agli scrittori il profumo della vaniglia, la bellezza di una torta o il sapore del cioccolato che si scioglie in bocca?

Quando la letteratura vuole descrivere la bellezza non può che trovare nei dolci la sua massima ispirazione. Perché poche altre creazioni dell’uomo riescono a toccare tutti i nostri sensi. Con il loro sapore deliziano il gusto, con il profumo confortano l’olfatto, con la bellezza stupiscono la vista. E non dimentichiamo quante volte anche il nostro tatto si è lasciato tentare dal desiderio di immergere la punta di un indice nella crema preparata dalla mamma o dalla nonna.

Che bontà sono le due parole che formano la poesia più recitata al mondo. Un verso condiviso da bambini e adulti, dai grandi poeti quanto dal più semplice uomo della strada.

E che un dolce sia capace di piegare anche la forza di volontà di un santo ce lo dimostra la testimonianza contenuta nello Specchio di perfezione, l’opera anonima che racconta la vita di san Francesco d’Assisi. Qui infatti viene descritto il desiderio che il Santo Patrono d’Italia rivolse ai suoi fratelli poco prima di morire:

Stava il Santo, infermo dell'ultima malattia che lo portò a morte, nel luogo di Santa

Maria degli Angeli. Un giorno chiamò i suoi compagni e disse loro: « Voi sapete come

Donna Jacopa de Settesoli è vivamente devota a me e al nostro Ordine. Credo perciò

ch'ella considererà grande favore e consolazione se la informiamo del mio stato.

Domandatele specialmente che mi faccia avere del panno monacale color cenere e,

insieme, mi mandi anche di quel dolce che a Roma preparò per me più volte». I romani

chiamano quel dolce: mostaccioli, ed è fatto di mandorle, zucchero e altri ingredienti.

Non sempre erano disponibili carta e penna quando poeti e letterati famosi hanno improvvisato un’ode davanti al dolce che gli era stato servito. Così tanti inni dedicati a torte, paste o anche semplici biscotti sono andati perduti per sempre. Ma altre dediche sono arrivate fino a noi, entrando in quel capitolo che la letteratura ha riservato alla pasticceria.

Marcel Proust quando ha dato alle madeleine un ruolo da protagonista nel suo romanzo Alla ricerca del tempo perduto ha sicuramente voluto raccontare l’esperienza che lui stesso aveva sperimentato assaggiando questi soffici dolcetti.

«Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere,

contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché,

cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines

e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente,

oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra

un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine.

Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato,

io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva

invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le

vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore,

colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza.

Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente?

Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura.

Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella

prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda».

Anche la letteratura gialla ha offerto le sue citazioni a partire dai romanzi di Nero Wolfe scritti da Rex Stout, che sono il miglior esempio di come l'arte dei fornelli si possa mescolare a un’indagine. Persino il dinamico investigatore privato Archie Goodwin, più abituato a muoversi per le strade di New York che in cucina, nel romanzo Nero Wolfe: invito a un’indagine inizia a fornire a uno spazientito collaboratore le istruzioni per preparare una crème Génoise prima di essere bruscamente interrotto:

Vado a casa e faccio fuori due porzioni di “crème Génoise”. Prendere due tazzine di

panna, mezza tazzina di zucchero, la buccia di un’arancia finemente tritata e...

Guido Gozzano, lo sfortunato poeta crepuscolare morto poco più che trentenne, ha usato gli ingredienti dell’ironia, della malinconia e del cioccolato per scrivere le sue Dolci rime.

a Luisa Giusti, amica minuscola,

con un cartoccio di cioccolatto

Sola bellezza al mondo

che l’anima non sazia,

fiore infantile, biondo

miracolo di grazia;

grazia di capinera

che canta e tutto ignora,

grazia che attende ancora

la terza primavera!

Tu credi ch’io commerci

(poi che poeto un poco)

in chi sa quali merci

buone alla gola o al gioco!

– Dammi una poesia! –

Così, come un confetto,

mi chiedi… E t’hanno detto

che sia?… Non sai che sia!

Che sia, come va fatto

il dono che vorresti,

ti spiegherò con questi

dischi di cioccolatto.

Due volte quattro metti

undici dischi in fila

(già dolce si profila

sonetto dei sonetti).

Due volte tre componi

undici dischi alfine

(compiute in versi “buoni”

quartine ecco e terzine).

Color vari di rime

(tu ridi e n’hai ben onde)

poni: terze e seconde

concordi, ultime e prime.

Molto noioso? O quanto

noioso più se fatto

di sillabe soltanto

e non di cioccolatto!

Di qui potrai vedere

la mia tristezza immensa:

piccola amica, pensa

che questo è il mio mestiere!

Da bravi genovesi non possiamo infine dimenticare l’omaggio che il poeta vernacolare Luigi Vacchetto, detto O Bacillo, ha dedicato al pandolce.

quello pandoçe bassu, un po sciaccou

ch'u pa finn-a un po duo quand'o se tocca

ma lì per lì, comme ti l'ae addentou

comme butiro o se deslengua in bocca

(quel pandolce basso, un po' schiacciato

che sembra perfino duro quando si tocca

ma lì per lì, come l'addenti,

come burro si scioglie in bocca)

Filippo Tagliafico