Farine

Vi sognereste di offrire ai vostri ospiti delle cotolette alla milanese preparate con delle fettine di di tacchino al posto del vitello? O di preparare una torta Pasqualina farcita di patate e melanzane? No, se volete evitare una pessima figura, perché anche i più elementari manuali di cucina possono avvisarvi che quanto state per mettere in tavola sarebbe qualcosa di completamente diverso dal nome con cui pretendete di chiamarlo.

Ma a parte questi esempi clamorosi la buona cucina ha regole ancora più severe riguardo alla scelta degli ingredienti fondamentali, come l’olio, il lievito o la farina. Parliamo proprio di quest’ultima.

O meglio, parliamo di farine perché se vi trovate davanti a una lista degli ingredienti che parla semplicemente di “farina” allora vi conviene mettere quel ricettario sullo scaffale più alto della vostra cucina, quello dedicato ai libri inutili. Esistono infatti tante farine e ciascuna ha le proprie caratteristiche e il suo impiego.

Come nasce la farina

Per prima cosa chiariamo che frumento e grano sono due nomi diversi per chiamare lo stesso tipo di cereale. Dal frumento duro (Triticum durum) si ricavano le semole, usate per la pasta e le polente, mentre dal frumento tenero (Triticum aestivum) si ottengono le farine vere e proprie usate in pasticceria e per la panificazione.

Il processo di produzione inizia già nel campo, dove la qualità del frumento dipende dal tipo di semente usata, dall’impiego o no di agrofarmaci, dai fattori climatici e dal momento della raccolta. Una volta selezionati i chicchi di frumento devono essere lavati per eliminare il materiale estraneo. La maggioranza dei produttori attualmente preferisce il lavaggio a secco per risparmiare, ma il lavaggio ad acqua è più efficace e ammorbidisce anche il chicco a vantaggio della successiva macinazione.

Il chicco delle piante di frumento è composto da un involucro esterno, la crusca, dove sono concentrati minerali e fibre, da un embrione, detto anche germe, che contiene una piccola quantità di grassi, e dall’endosperma, la parte più ricca di amidi e proteine, fra i quali l’ormai famigerato glutine.

Quanto più nel processo di macinazione si privilegia la concentrazione dell’embrione a danno delle altre parti tanto maggiore sarà il livello di purezza della farina. Questo ci porta a quella classificazione per numeri familiare a chiunque faccia la spesa.

Tipo di farina% max di umidità tollerataCeneriProteineAbburrattamento
0014,50%0-0,55%Inferiori al 9%50%
014,50%0-0,65%9-11%72%
114,50%0-0,80%11-12%80%
214,50%0-0,95%11-12%85%
Integrale14,50%1,30%-1,70%11-12%100%
Fonte: Facoltà di Scienze agroalimentari, Università di Parma

Questa tabella evidenzia come siano le ceneri e l’abburrattamento gli unici dati che cambino per ogni tipo di farina. Infatti uno dei test a cui viene sottoposta prevede la sua carbonizzazione, un processo che lascia come residuo i minerali che non possono bruciare. La farina tipo 00 è considerata la più raffinata perché viene prodotta privilegiando l’endosperma, povero di minerali, al contrario della farina integrale che contiene anche la crusca. Le differenze fra questi due tipi di farina sono del resto visibili: si parte dal bianco immacolato della 00, che deriva dalla forte presenza di amido, per arrivare al colore scuro della farina integrale.

La percentuale di ceneri è determinata a sua volta dall’abburrattamento, un termine che fa paura ma che in effetti indica semplicemente la percentuale di chicco estratta durante il processo di macinazione. Ormai è chiaro che la farina 00 abbia il tasso di abburrattamento più basso perché utilizza solo l’endosperma mentre per l’integrale viene usato tutto il chicco. Questa classificazione ci aiuta a stabilire quale sia il tipo di farina più adatto a un certo regime alimentare, ad esempio per una dieta ricca di fibre. Ma non ci aiuta a stabilire quale sia il tipo di farina più adatto a un determinato dolce.

La differenza fra un frollino e una fetta di pandoro è evidente a tutti. Ciò che crea la differenza fra questi due dolci è il tempo di lievitazione, rispettivamente di breve e lunga durata. E la lievitazione è legata ad un parametro tecnico della farina poco conosciuto al grande pubblico ma ben noto a tutti gli addetti ai lavori: la forza.

Cos’è la forza?

“...mio alleato è la Forza, ed un potente alleato essa è! La vita Essa crea, ed accresce! La sua energia, ci circonda... e ci lega!”. Non troverete queste parole su nessun manuale di cucina, ma la frase pronunciata dal Maestro Yoda nell’Impero colpisce ancora sottolinea l’importanza che questa caratteristica della farina riveste nel lavoro dei pasticceri e dei panettieri.

La forza, rappresentata dal simbolo “W”, indica la capacità di una farina di trattenere dapprima i liquidi durante la lavorazione dell’impasto e successivamente l’anidride carbonica durante la lievitazione. Più alto è il suo valore, più il risultato finale sarà un prodotto soffice, proprio come il pandoro. Più scendiamo, più avremo prodotti asciutti fino ad arrivare ai grissini e ai frollini. La tabella che segue illustra chiaramente il rapporto fra forza e prodotti finali.

WP/LProteineImpiego
90/1300,4-0,59-10,5Pasta frolla, frollini
130/2000,4-0,510-11Grissini, cracker
170/2000,4510,5-11,5Pane comune, ciabatte, pancarré, pizze, focacce, fette biscottate
220/2400,45-0,512-12,5Baguette, pane comune, maggiolini, ciabatte a impasto diretto e preimpasto di 5/6 ore
300/3100,5513Pane lavorato, pasticceria lievitata con preimpasto di 15 ore e impasto diretto
340/4000,55-0,613,5-15Pane con mollica alveolata e crosta sottile (michetta e baguette), pizza al trancio, grandi lievitati (pandoro, panettone, brioche), pasticceria lievitata con preimpasto oltre le 15 ore
Fonte: Facoltà di Scienze agroalimentari, Università di Parma

Oltre alla forza, gli addetti ai lavori guardano anche alle proprietà reologiche di una farina. Queste, misurate dal rapporto P/L, indicano la tenacità, l’elasticità e l’estensibilità dell’impasto. Partendo sempre dai due casi estremi, per i frollini possiamo usare farine con P/L bassi perché non richiedono impasti elastici al contrario dei grandi lievitati che devono sviluppare volume.

Qualche parola sul glutine

Il glutine sta diventando la pecora nera dell’alimentazione mondiale. Sempre più forni fanno della produzione gluten-free un vanto, magari dietro a cui nascondere aumenti dei prezzi ingiustificati e l’uso di ingredienti alternativi scadenti, mentre i forni che non si adeguano a questa linea vengono additati come untori. In realtà il glutine è un elemento indispensabile della panificazione, della pasticceria e della stessa dieta mediterranea. Senza di esso non avremmo dolci e pane ben lievitati, una condizione che oltre ad offrire al palato un prodotto soffice e quindi meglio apprezzato lo rende anche più digeribile. E senza di esso sarebbe impossibile cuocere la pasta senza ritrovarsi una pappa collosa al posto di penne e spaghetti al dente.

Il glutine infatti trattiene l’amido nella pasta, mantenendone la consistenza durante la cottura.

L’esplosione della celiachia e delle altre intolleranze, sconosciute fino a pochi anni fa’, non è dovuta al fatto che il glutine abbia rivelato finalmente il suo volto maligno, ma trova piuttosto origine nella corsa sfrenata delle industrie alimentari verso dolci sempre più soffici. L’idea suggerita dalle pubblicità è che una merendina per piacere ai bambini non debba essere solo dolcissima, ma debba avere anche la consistenza di una nuvola. E dato che la lievitazione naturale ha dei limiti l’unico modo per vincere questa corsa è diventato quello di “dopare” le farine, aumentando artificialmente il contenuto di glutine.

Come già avvenuto un ventennio fa’ per il morbo della mucca pazza, le nuove generazioni stanno pagando le conseguenze di questo stravolgimento della natura.